VANGELO E SACRAMENTI
Introduzione
La Chiesa diventa sacramento di salvezza attuando la consegna di Gesù: Predicate e battezzate.
Questo è sempre stato e sempre sarà il suo impegno primario. Tutto il resto è in funzione di questo: lo prepara e lo prolunga.
Chi salva il mondo è uno solo: Cristo. Non c’è salvezza in nessun altro (At 4,12). Egli ha posto al centro della storia una volta per tutte l’Atto che può condurre a perfezione (Eb 10,14) la salvezza dell’uomo.
Ma occorre che questo Atto salvifico afferri l’uomo che vive nel tempo. Deve dunque diventare coestensivo a tutta la storia. Ci vuole in altri termini un Cristo contemporaneo. Bisogna che l’opera di Cristo si prolunghi in tutti i tempi della storia.
Cristo ha provveduto a questo istituendo la Chiesa. Essa è il suo prolungamento: Altro non è che esso stesso Cristo (s. Caterina da Siena). È il Cristo diffuso e comunicato (Bossuet).
Tra Cristo e la Chiesa c’è un’identità: nell’essere, perché essa è il Corpo di cui Cristo è il Capo; nell’agire, perché l’azione di Cristo si incarna negli atti ecclesiali: solo così essi possono recare salvezza.
Ma vale totalmente questa identità? Chi potrebbe affermare che il volto della Chiesa è senza ruggine e senza macchie? È certo che i peccati dei suoi membri deturpano il volto di questa Madre. Con un’espressione ardita qualche Padre della Chiesa l’ha definita santa meretrice. Santa per la santità di Cristo e di tutti quelli che ricalcano le sue orme; meretrice per le incoerenze e i tradimenti di tanti suoi figli.
Queste macchie però non appartengono al volto di Cristo: Egli è specchio senza macchia che riflette perfettamente la santità di Dio. Gli uomini di Chiesa possono fare (e talora fanno) certe cose e certe scelte in cui Cristo non si riconoscerebbe. L’identità Chiesa-Cristo non è dunque totale.
La ragione è semplice: Cristo è il Regno perché in Lui il regno di Dio è venuto (Mt 12,28). Ma la Chiesa non è il Regno: è per il Regno. Si potrebbe anche dire: è il Regno in costruzione. Ciò suppone fasi intermedie imperfette. In essa il Regno si sta costruendo faticosamente, in modo progressivo.
Quest’opera copre tutto l’arco del tempo e sarà perfetta solo alla fine, quando Dio sarà tutto in tutti (1Cor 15,28).
Non c’è dunque garanzia per noi di raggiungere l’azione di Cristo tramite un’azione ecclesiale? Sì, c’è. Ci sono momenti e mezzi privilegiati in cui l’identità Cristo-Chiesa è assicurata. Quando l’intera Chiesa, con i suoi vescovi in comunione col Papa, propone una verità di fede, essa ha il carisma certo della verità: è parola di Cristo, è luce divina che illumina l’esistenza. Quando l’annuncio cristiano, fatto da qualunque credente, trasmette fedelmente la Parola, in piena adesione al vangelo e in comunione con la fede ecclesiale, è Cristo che annuncia oggi il suo vangelo. Quando si celebra un battesimo o una eucaristia o un altro sacramento nella comunione ecclesiale, questi sono atti personali di Cristo incarnati in un’azione della Chiesa. Lì è possibile un contatto diretto e sicuro con Cristo: è uno spazio privilegiato e certo di grazia.
È chiaro che tutto questo, per essere autentico, deve svolgersi in un clima di fede. Fuori della fede non è possibile nessun incontro con Dio.
È la fede che salva: la fede che è adesione viva di tutto l’essere a Cristo, e include la speranza e la carità.
Parola e sacramenti hanno un rapporto essenziale con la fede. L’annuncio della Parola suscita la fede e la nutre: La fede nasce dalla predicazione e la predicazione ha luogo per mezzo della parola di Cristo (Rm 10,17).
I sacramenti poi sono i sacramenti della fede, celebrazioni impregnate di fede, e solo a questa condizione sono fruttuosi: ci comunicano la vita divina, innestandoci nella Pasqua di Cristo. Gesù è l’unico salvatore degli uomini. Ma li salva attraverso la sua Chiesa. E la Chiesa affronta questa missione formidabile con l’annuncio del vangelo e la celebrazione dei sacramenti. I sacramenti - dicevano i Padri della Chiesa - sono le mani del Signore. Perché lì l’identità della Chiesa con Cristo è totale. Se Pietro battezza, è Cristo che battezza diceva s. Agostino. E riguardo alla Parola annunciata s. Paolo ha scritto: Noi ringraziamo Dio continuamente, perché, avendo ricevuto da noi la parola divina della predicazione, l’avete accolta non quale parola di uomini, ma, com’è veramente, quale parola di Dio, che opera in voi che credete (1Ts 2,13).
È una certezza di fede valida per tutti i tempi.
È questo l’oggetto delle pagine che seguono.
VANGELO E SACRAMENTI NEL DISEGNO DI DIO
In queste brevi riflessioni vogliamo indicare il posto che il vangelo e i sacramenti devono avere nella vita cristiana e nell’attività pastorale, secondo il disegno di Dio.
Nel linguaggio dei Padri della Chiesa il termine sacramento indica qualunque realtà sensibile che racchiude in sé una realtà divina e ce la comunica: in questo senso largo tutte le realtà della Chiesa possono essere considerate sacramento.
Noi qui intendiamo parlare dei sette segni sacramentali che accompagnano l’uomo nel suo cammino terreno dalla nascita (battesimo) al declino (unzione degli infermi). È in questo senso ristretto che usiamo il termine.
Per l’evangelizzazione invece occorre fare il rovescio: prenderla in senso largo. Infatti in senso stretto essa indica l’annuncio missionario ai non credenti, cioè la prima forma che trasmette l’annuncio, con il duplice scopo di suscitare la fede e di spingere alla conversione. Accanto ad essa si pone un’altra forma di predicazione: la catechesi. Essa si rivolge a chi è già credente. Il suo scopo è quello di fortificare la fede e ampliare gli orizzonti, trasmettendo tutto intero il contenuto della Rivelazione.
Nel nostro caso evangelizzazione sta, in senso largo, per qualunque tipo di annuncio, cioè di trasmissione della Parola, e include tanto la predicazione quanto la catechesi.
Anzi include la stessa omelia, che è la forma più completa e autorevole di annuncio del vangelo: completa perché assume, volta per volta, tutte le funzioni della predicazione cristiana; autorevole perché, collocata all’interno della celebrazione liturgica, si imbeve della sua atmosfera e partecipa della sua efficacia.
Quindi Parola e sacramenti sono i due strumenti privilegiati della salvezza.
Spieghiamoci. La salvezza è una sola: è Cristo, con la sua persona e la sua opera. Non c’è salvezza in nessun altro e in nient’altro (At 4,12).
Quindi ogni lavoro è apostolato nella misura in cui apre una strada attraverso la quale i fratelli possano camminare verso il Signore.
Tutto l’immenso sforzo pastorale altro non è che una pedagogia dell’incontro. Ma la pastorale deve mettere in atto i mezzi perché l’incontro avvenga. Vangelo e sacramenti assolvono a questo compito: stabilire il contatto con Cristo, con la sua parola e con la sua azione. E essere così salvati.
È vero che i mezzi sono molti: Cristo si serve di tutto per salvarci. Ma su tutti emergono, per importanza ed efficacia, questi due. Lo documenta il N.T.: Predicate e battezzate, ordina Gesù ai discepoli. Gli apostoli lasciano ad altri le mansioni diverse da queste, compresa l’azione caritativa (At 6,2) per consacrare tutte le loro energie alla preghiera e alla predicazione della Parola. I Padri della Chiesa sono gli uomini della parola e del sacramento, anzitutto e soprattutto. Oggi, come negli altri tempi e forse più che in altri tempi, si tratta di salvare il mondo e di cambiarne il volto. Di fronte a una simile impresa a che cosa servono un po’ di parole buttate sulla gente durante l’omelia o un po’ d’acqua versata sulla testa di un bambino? Ci vuole ben altro, dirà qualcuno. Certo, se si trattasse di gesti umani o di vacue cerimonie, nulla di più inetto e inutile. Ma in quella Parola e in quel gesto è Dio stesso che agisce. L’efficacia è proporzionata alla sua divina potenza. È Lui che, come protagonista, guida la storia. Ora, nel suo agire, la parola e i sacramenti sono i punti di più viva luce e di più potente efficacia (E. Schillebeeckx).
Tra vangelo e sacramenti c’è un vincolo indissolubile radicato nella storia della salvezza. Una mentalità diffusa tra noi tende a dissociare i due elementi: come se la predicazione dovesse trasmettere una dottrina e i sacramenti conferire la grazia. I protestanti hanno sottolineato in modo unilaterale l’importanza della Parola. Per reazione i cattolici hanno sottolineato l’efficacia del rito. Questa contrapposizione polemica ha separato ciò che di sua natura è strettamente connesso. Con grave danno per la pastorale.
Si aveva l’impressione di avere da una parte una Parola che dice ma non fa, e dall’altra un rito che fa ma non dice. Questo non è assolutamente vero.
La Parola di Dio è viva ed efficace (Eb 4,12): Dio fa quello che dice.
La sua Parola è forza per la salvezza di chiunque crede (Rm 1,16).
D’altra parte il rito, in quanto simbolo, esprime anch’esso e comunica un messaggio. Il segno sacramentale non è solo gesto, è anche parola. Per dirla in breve: predicazione e sacramento sono fasi necessarie di un unico itinerario di salvezza di cui una costituisce l’inizio e l’altro il compimento.
È Cristo il sacramento fontale, originale e la parola definitiva. Egli è il gesto supremo di Dio e la sua Parola. Egli è Dio in gesto umano, il supremo sacramento, perché col termine sacramento si intende designare una realtà sensibile che esprime e contiene una realtà divina. Gesù è il sacramento dell’incontro con Dio. La Parola diventa un fatto e si chiama Gesù.
Egli è l’intervento decisivo e definitivo di Dio nella storia degli uomini: la realizzazione finale di ciò che voleva fare. Ma è anche la Rivelazione definitiva: in Lui si esprime tutto ciò che Dio voleva dire.
Egli narra a parole ciò che ha visto nel seno del Padre (Gv 1,18). Ma prima che a parole, lo rivela con il suo essere: la Parola si è fatta carne (Gv 1,14). Quella Parola non è più solo udibile agli orecchi, ma anche visibile agli occhi e palpabile alle mani (1Gv 1,1). Gesù è la gloria di Dio riflessa su un volto umano (2Cor 4,6), è l’amore di Dio che si rivela nell’agire di un uomo.
Gesù dunque rivela Dio con quello che egli è, con quello che dice e con quello che fa. Gesù è la Parola di Dio che diventa fatto, e il fatto che si fa così trasparente e luminoso da diventare parola. Tutta la pastorale è chiamata a una scelta precisa e coraggiosa: deve scoprire che essa ha un riferimento essenziale al mistero di Cristo e spostare di conseguenza l’attenzione dai sacramenti al Sacramento: Gesù. Bisogna guardare al divin Maestro e confrontarsi con lui.
Qual è l’iter da lui seguito nel recare la salvezza? Normalmente egli agisce così: anzitutto predica per suscitare la fede negli ascoltatori. Chi accoglie il messaggio, gli va incontro con viva attesa e fiducia totale. Si attua allora l’incontro: un contatto personale che opera la guarigione. Questo avviene mediante un contatto fisico con la sua umanità: da lui esce una forza che guarisce tutti (Lc 6,19). La guarigione segna l’inizio di una esistenza nuova che diventa testimonianza di Gesù di fronte ai fratelli.
Il vangelo adombra così le tappe obbligate di ogni pastorale: l’annuncio che suscita la fede, l’incontro sacramentale che trasforma, l’inizio di una esistenza nuova.
Nel confronto di questi momenti con gli elementi del vangelo si noterà l’identificazione tra l’azione di Cristo che guarisce e il gesto sacramentale. Ed è esattamente così. I sacramenti, dopo l’ascensione di Cristo glorioso, continuano a compiere sulla terra una funzione analoga a quella del contatto personale con lui, nel quale trova compimento quello che la sua parola aveva annunciato (Y. Congar). I sacramenti - dicono i Padri della Chiesa - sono le mani del Signore. Si noti inoltre la priorità dell’annuncio: ci vuole prima la Parola che suscita la fede, senza la quale i sacramenti non hanno efficacia. E ci vuole poi il sacramento che porta a compimento quello che la parola ha annunciato.
Questo si esige dalla Chiesa perché sia davvero nella linea del sacramento primordiale che è Cristo.
Anche la Chiesa però è sacramento, perché Cristo continua nella Chiesa.
In quanto santa la Chiesa si identifica con Cristo, in quanto peccatrice se ne distingue. E tuttavia la sua ragion d’essere è nel vangelo, in cui Cristo continua a parlare, e nei sacramenti in cui Cristo continua ad agire.
Sono mezzi di salvezza che sono a lei affidati ma che in qualche modo la superano. Il momento in cui reca l’annuncio e in cui conferisce il sacramento, è quello in cui la Chiesa più totalmente si identifica col Salvatore.
È lui allora che parla e agisce, servendosi di essa come strumento.
Annuncio e sacramenti sono atti con cui la Chiesa esercita la sua feconda maternità. E la Chiesa siamo noi.
Diceva s. Girolamo: La Chiesa è l’insieme di coloro che credono in Cristo.
Ogni credente ha dunque parte attiva a quell’atto di generazione soprannaturale che mette al mondo nuovi cristiani. A costituire la Madre Chiesa partecipano tutti i membri della Chiesa. Diceva s. Ambrogio: presi singolarmente, siamo figli, presi tutti insieme siamo genitori, cioè generatori (filii singuli, universi parentes). Come dire che tutti devono prendere parte attiva all’annuncio, e tutti sono celebranti, ognuno col proprio dono, del mistero di Cristo nei sacramenti. Come per comporre la Chiesa nella sua interezza ci vogliono tutti, così tutti dobbiamo avere parte alla sua attività salvifica perché sia piena la sua fecondità di Madre. Tutti attori responsabili dunque nella grande impresa di evangelizzare e sacramentalizzare il mondo.
IL VANGELO DI SEMPRE NELLA CHIESA DI OGGI
Guardiamo ora i due elementi cominciando dall’annuncio. Questo ha infatti una indubbia priorità. Bisogna che prima sia risvegliata la fede che è la disposizione fondamentale per accedere con frutto ai sacramenti. Ora la fede nasce dalla predicazione, e la predicazione ha luogo per mezzo della parola di Cristo (Rm 10,17).
Il termine annuncio è un tentativo di tradurre la parola biblica eu-anghèlion.
È una bella notizia. Deve risuonare come qualcosa di nuovo, che suscita sorpresa, riempie il cuore di gioia, scuote l’animo dal suo torpore. Per essere tale deve nascere dalla scoperta personale di chi reca l’annuncio. E poiché la notizia è antica quanto il cristianesimo, bisogna riscoprirla nella preghiera con infinito stupore. Se ci faccio l’abitudine, l’annuncio perde il suo mordente. È quello che spesso accade. Non si sente più la gioia dell’annuncio.
Non mi tocca il cuore e perciò non può prendere sulle mie labbra il sapore della novità. Solo la vibrazione interiore può dare calore all’annuncio. Diversamente diventa trasmissione di una notizia che non interessa nessuno, quasi fredda moneta che si passa di mano in mano. Non è così che la Maddalena il mattino di Pasqua ha portato ai discepoli l’annuncio della Risurrezione.
Bisogna che la notizia maturi nel silenzio del cuore per erompere poi come grido incontenibile, con una forza d’urto travolgente. Chi incontra veramente Cristo sente il bisogno di annunciarlo agli altri (Gv 1,35-51) ma non recando una notizia stanca, ascoltata con noia, ma un annuncio sconvolgente. Chi l’ascolta e l’accoglie pianta lì tutto e corre. In termine teologico: si converte.
Il primo effetto dell’annuncio è così la conversione: un orientamento nuovo di tutta l’esistenza. Un movimento che incomincia dal cuore, che viene profondamente rinnovato: la Parola, che è luce, lo illumina; l’annuncio, con la sua forza liberante, spezza tutti i legami delle sue schiavitù. La trasformazione si riflette poi in tutta l’esistenza, la quale cammina: parte da ciò che non è ancora verso ciò che dovrebbe già essere. Così l’annuncio crea uomini che si convertono sinceramente, ogni giorno al vangelo e trascinano con sé anche altri nella propria fede.
Gesù - si è detto sopra - è la Parola definitiva di Dio. Prima Dio parlava in modo indiretto, per mezzo dei profeti. Con Cristo il discorso si fa diretto.
In lui è Dio in persona che parla, perché egli è la Parola. Perciò ha pronunciato le parole di Dio (Gv 3,34) e continua a pronunciarle mediante quelli che ha inviato (Gv 20,23). Ad essi ha affidato le sue parole (Gv 17,8). Per questo è Lui che parla quando si leggono le Scritture (SC 7).
Quando si tratta di Cristo, è sempre inesatto coniugare al passato il verbo parlare. Parla oggi. Per mezzo del suo Spirito la viva voce del vangelo risuona nella Chiesa (DV 8). La sua parola passa per le labbra di uno strumento umano: ma è sua.
E per questo l’annuncio, se trova accoglienza, ha la forza di trasformare e di salvare. Cristo si serve degli uomini per evangelizzare e per salvare. Ma come è l’unico Salvatore, così è l’unico Evangelizzatore. Per essere bella, per recare luce e salvezza, la notizia (il vangelo) deve sgorgare dalla sua bocca divina.
Nello stesso tempo Cristo è l’oggetto dell’annuncio. Basta guardare alla sua prima formulazione negli Atti degli apostoli, quella che gli esegeti chiamano il Kérigma primitivo. Può essere riassunto così: In Cristo si compiono tutte le promesse; Egli ci salva con il suo mistero pasquale; vive nella Chiesa e ci applica la salvezza per mezzo della Parola e dei sacramenti; vuole la nostra risposta di fede e di conversione; tornerà come giudice per portare a termine il piano di salvezza.
Appare chiaro che l’annuncio cristiano non reca al mondo un complesso dottrinale. Esso predica una Persona: Gesù di Nazaret. Annuncia ciò che Egli ha fatto e fa per salvarci. Incentra la sua attenzione sul fulcro della sua vicenda: la Pasqua di morte e di risurrezione. In ultima analisi l’evangelizzazione dice: Se Cristo è davvero risorto, allora tutto il senso della storia e della vita umana cambia. Allora c’è posto per una speranza che non muore, ma rinasce incessantemente: Il Cristo Risorto viene a suscitare una festa nel più profondo dell’uomo.
L’annuncio si attinge dal vangelo che la Chiesa trasmette inalterato attraverso i secoli. È un deposito affidato alla Chiesa, alla quale l’assistenza dello Spirito santo garantisce la fedeltà. Ma la fedeltà non basta perché oltre che un deposito, è un annuncio che deve risuonare oggi. Deve assumere il linguaggio di oggi. Deve calarsi nelle nuove situazioni, raggiungere l’uomo reale, interpellarlo, farsi ascoltare.
È tra questi due poli che l’annuncio deve muoversi, creando una felice sintesi tra la verità di sempre e l’uomo di oggi.
Ma si pone subito un problema: Dovendo fare l’aggancio tra vangelo e vita, da dove prenderà le mosse l’annuncio? Dalla vita e dai suoi problemi o dalla parola di Cristo per calarla nelle situazioni dei destinatari? La scelta del punto di partenza appartiene al metodo e questo non intacca la sostanza. Se l’uditore non è disposto ad accogliere l’annuncio, occorrerà prima suscitare in lui una attesa e un bisogno. L’ha fatto talora anche Gesù: ha aspettato a dire certe cose agli apostoli perché non erano in grado di sopportarle (Gv 16,12).
Trattando con Pilato si accontenta di piantare un dubbio nel suo cuore, senza dargli la risposta al problema della verità. Paolo all’Aeropago di Atene cerca dapprima di suscitare nei suoi ascoltatori l’esigenza del vero Dio, anche se non ebbe grande fortuna in quell’occasione. Talora la strada pedagogicamente più efficace è quella che prende le mosse dalle aspirazioni e dai problemi odierni.
Occorre aggiungere che s. Paolo segue in genere la strada opposta: predica il Cristo crocifisso, anche se è scandalo e stoltezza, e rinuncia ai sostegni e alle prove derivanti dalla scienza umana. Basterà rileggere la prima parte della prima lettera ai Corinti: vi si parla di una sapienza divina che scavalca la sapienza dell’uomo. Se si ha coraggio di gridare il vangelo in tutta la sua forza, con le sue esigenze anche supreme, esso, con la sua forza d’urto, scuoterà l’indifferenza di chi ascolta. Gli metterà almeno un’inquietudine nel cuore.
I predicatori che hanno lasciato un solco nella storia hanno fatto così.
Qualcuno potrà obiettare che sono cambiati i tempi: è vero, ma non cambiano le leggi fondamentali della psicologia umana, e non viene meno la forza della parola di Dio. Oggi come ieri essa è forza per la salvezza di chiunque crede.
C’è bisogno di evangelizzatori ricchi di quell’audacia che sgorga dalla fede.
Forse è il solo modo per fare breccia nell’indolenza e nell’indifferenza di molti.
L’iter più congeniale sembra dunque quello che va dalla Parola alla vita attraverso questi passaggi: Che cosa ci dice oggi il Signore? Che significato ha questo nel suo disegno totale? Che senso acquista per noi concretamente? Come tradurlo nella vita? In ogni caso il centro focale dell’annuncio è sempre la Parola.
L’annuncio è più efficace quando è rivissuto in un’esperienza comunitaria.
Sappiamo che Gesù ha affidato il suo vangelo non a individui isolati, ma a una comunità di salvezza. Si è adattato con ciò a una legge fondamentale della psicologia: una verità quando è vissuta in comunità ha un fascino più grande. Il suo annuncio si rivela allora più dinamico e più efficace. Gli Atti degli apostoli (2,41 ss.) ci dicono che il primo nucleo della Chiesa si è realizzato in una comunione totale: e al centro c’era una dottrina comune trasmessa autorevolmente dagli apostoli, accolta e vissuta da tutti con fervore e con freschezza di spirito. Questo spiega quella meravigliosa espansione missionaria e la forza conquistatrice dell’annuncio: la Parola allora correva (2Ts 3,1) e nessun ostacolo la poteva arrestare.
I SACRAMENTI: GESTI SALVIFICI DELLA CHIESA-SACRAMENTO
Dopo aver dato uno sguardo d’insieme su Parola e sacramenti nei loro mutui rapporti e dopo aver delineato le funzioni dell’evangelizzazione con i problemi principali che essa pone, ora rivolgiamo la nostra attenzione direttamente ai sacramenti.
Diciamo subito che il sacramento non è una cerimonia vacua né un gesto di efficacia magica, ma un rito che incarna l’agire di Dio.
I sacramenti sono dunque gesti che incarnano l’agire di Dio. Sono le meraviglie più grandi che Dio compie in mezzo a noi nel tempo presente, in continuità con i gesti di salvezza che ha operato in tutta la storia di salvezza: la creazione, l’esodo, l’alleanza del Sinai e soprattutto la Pasqua di Cristo. Quest’ultima ricapitola tutti gli interventi di Dio: è il gesto definitivo. E in ogni sacramento è presente la Pasqua di Cristo per afferrare gli uomini di tutti i tempi, comunicare loro la vita del Risorto e così salvarli. Sempre a condizione che uno non ne paralizzi l’azione con il rifiuto, con la mancanza di fede.
Certo questi gesti non hanno la grandiosità spettacolare degli eventi dell’AT.
Ora tutto accade sotto il velo di umili gesti rituali: nel mistero. Ma ciò che accade oggi è ancora più grande di ciò che accadeva allora. Questo carattere nascosto si accorda con il progetto di Dio per il tempo presente: tempo delle realtà nascoste nel mistero. Tutta la nostra vita (le meraviglie operate in noi dalla grazia) è nascosta con Cristo in Dio (Col 3,3). Il nostro esaltante destino soprannaturale non è stato ancora manifestato (1Gv 3,2). Un giorno lo sarà: e la sorpresa sarà indescrivibile.
Un’ultima annotazione su questa linea. Cristo ha tradotto l’agire di Dio in gesto umano. E questo continua a fare nei sacramenti, i quali sono così gesti personali del Cristo pasquale. Sono le sue mani sante e venerabili che spezzano il pane eucaristico. Il giovane che si accosta al vescovo per ricevere l’investitura sacerdotale, può dire in tutta verità, rivolgendosi a Cristo nella preghiera: Tu poni su di me la Tua mano (Sal 139,5). Ed è ancora quella stessa mano che si tende amorosa verso il penitente per rinnovarlo nel perdono. Il ministro è solo uno strumento. Se Pietro battezza, Cristo battezza. Se Giuda battezza, Cristo battezza (s. Agostino). Si ripetono così nei sacramenti le scene evangeliche che hanno avuto come teatro le strade della Palestina. All’appuntamento sacramentale Cristo ripete a ciascuno: Se credi, tutto è possibile (Mc 9,23). E da Lui esce una forza che ci salva. Diceva s. Ambrogio: Dove c’è Cristo, là sono tutte le cose: la dottrina, il perdono dei peccati, la grazia...
L’azione sacramentale non ha Cristo come unico protagonista: nel rito è all’opera la forza dello Spirito Santo che ci vivifica e ci divinizza, modellandoci su Cristo.
Dire che i sacramenti sono azione personale di Cristo è affermare una cosa verissima. Ma non è tutto, accanto al Cristo c’è un altro protagonista: lo Spirito Santo.
I sacramenti sono mezzi privilegiati dell’azione che il Signore risorto esercita sulla Chiesa. In essi Cristo si serve di strumenti umani: del ministro che agisce in persona di Cristo secondo la celebre espressione di san Tommaso d’Aquino. Si crea cioè una certa identità personale tra Cristo e il celebrante: quello che fa l’uno, fa l’altro. Questo avviene in forza del carattere speciale, ministeriale, ricevuto dal sacerdote nell’ordinazione. Egli perciò ripete le parole e i gesti di Gesù: si pensi al momento centrale della messa.
Le parole dell’istituzione diventano così nell’Eucaristia il momento culminante.
Dopo aver parlato di Cristo come primo protagonista nella celebrazione dei sacramenti, parliamo ora dell’altro protagonista: lo Spirito Santo.
La salvezza è essenzialmente una divinizzazione progressiva operata dallo Spirito Santo che è Signore e dà la vita: è l’epifania di Dio, una manifestazione delle sue energie che ci divinizzano. Perciò lo Spirito Santo diventa, insieme col Cristo, protagonista della salvezza. Certo lo Spirito non opera indipendentemente dal mistero di Cristo e della sua Pasqua. Egli interiorizza il mistero di Cristo nell’anima di ciascun credente e fa sì che quello che è accaduto a Cristo, accada a ognuno di noi. I sacramenti sono spazi privilegiati di questa azione dello Spirito. È lì soprattutto che Egli è all’opera per realizzare, in modo progressivo verso la pienezza, quella creazione nuova e definitiva di cui la risurrezione di Cristo è l’inizio e il pegno. Con la sua potenza lo Spirito Santo anima ora le parole e i gesti sacramentali come ha animato allora la vita di Cristo. È a lui che si deve l’identità tra il gesto sacramentale e i gesti di salvezza compiuti dal Cristo storico. Di conseguenza assume un’importanza enorme nella celebrazione l’invocazione che sollecita l’intervento dello Spirito Santo. S. Efrem siro scrive a riguardo dell’eucaristia: Chi mangia il corpo di Cristo con fede mangia con lui il fuoco dello Spirito Santo.
Accanto al Cristo, e sempre in rapporto al suo mistero pasquale, c’è lo Spirito che dispiega la sua divina energia, ci vivifica e ci divinizza. Imprime nella Chiesa, che è il corpo di Cristo e di cui Egli è l’anima, una forza di rinnovamento e di espansione. E i sacramenti sono lo spazio e i mezzi privilegiati della sua azione.
Il simbolo sacramentale ha un singolare valore espressivo: è un linguaggio che parla a tutto l’uomo. La rivelazione di Dio avviene con eventi e parole intimamente connessi (DV 2). Con lo stesso stile Dio si rivela mediante la liturgia.
Fa risuonare sempre attuale la sua parola e continua ad agire. I segni sacramentali sono la sua azione e nell’agire Dio si rivela: parla mediante i segni.
Il simbolo è il linguaggio tipico della liturgia. È il più suggestivo, il più plastico, il più umano perché non parla solo all’intelligenza, ma a tutto l’uomo.
Il linguaggio simbolico è l’espressione di una visione profondamente religiosa del mondo. Ogni realtà visibile è considerata come immagine di una realtà spirituale e invisibile.
Questa è la via che Dio ha scelto per incontrarsi con noi: tutta la storia sacra lo documenta. Egli che ha plasmato l’uomo, sa bene come è fatto. L’uomo è spirito unito a un corpo: e per elevarsi allo spirituale deve passare per il sensibile. Dice s. Giovanni Crisostomo: Se tu fossi incorporeo Dio ti avrebbe dato doni nudi e incorporei. Ma poiché l’anima è unita al corpo, ti ha dato cose spirituali in cose sensibili. E così la liturgia ci mette di fronte a un mondo infinitamente ricco di immagini e di segni gravidi di senso: gesti, movimenti, atti, oggetti. Le cose sono assunte nel gesto: l’acqua nell’abluzione del battesimo, l’olio nell’unzione, il pane... Questo porta con sé conseguenze pratiche. Ne sottolineiamo due:
a) Il segno deve essere autentico: deve sgorgare da una pienezza interiore ed esprimersi all’esterno con dignità e verità. Per questo bisogna reagire al convenzionalismo e all’abitudine, che hanno la triste possibilità di svuotarli.
Questo accade già nel contesto sociale: stringiamo, ad esempio, la mano a qualcuno, ma non ci rendiamo conto che con questo vorremmo dargli la nostra fiducia, la nostra simpatia, aprire a lui il nostro animo: è diventato un gesto meccanico e quindi vuoto e qualche volta addirittura falso. Questo svuotamento del gesto è ancora più terribile nella vita religiosa e specialmente nella celebrazione dei sacramenti. Quanti segni si fanno senza che più nessuno avverta la realtà divina che vi è racchiusa. La Chiesa ha rinnovato recentemente i riti, secondo le indicazioni del Concilio Vaticano II, in modo che le sante realtà da essi significate fossero espresse più chiaramente, il popolo cristiano potesse capirne più chiaramente il senso e parteciparvi con una celebrazione attiva, piena, comunitaria (SC 21). Ma questo sforzo viene reso inutile, se chi compie il rito lo fa in maniera sciatta, distratta e frettolosa. In questo modo ne viene offuscata la trasparenza: anziché una finestra aperta sull’azione di Cristo, il rito diventa un diaframma, un impedimento.
b) La partecipazione attiva, conscia e piena al mistero passa attraverso il rito concreto. Il rito infatti non solo fa quello che dice (è efficace) ma dice quello che fa: esprime cioè il mistero, ossia ciò che di divino accade sotto il velo del segno. Se dunque voglio sapere quello che accade devo guardare i gesti e ascoltare le parole. È il classico metodo mistagogico dei Padri della Chiesa.
Si può riassumere così: prendere i fedeli per mano, condurli a una esperienza concreta del rito e attraverso il rito farli incontrare con il mistero, cioè metterli in rapporto vivo con il Cristo che salva.
Davanti all’acqua battesimale, il catecumeno è tentato di pensare: Tutto lì? Ma s. Ambrogio risponde: Sì, ma guarda con fede quell’acqua. Percorri la storia sacra e ripensa a tutte le meraviglie che Dio ha compiuto attraverso l’acqua (creazione, diluvio, esodo...) e capirai la meraviglia che ora sta compiendo.
Oltre ad essere segno efficace, il rito assolve così a una funzione didattica. Parla di Dio e rivela il suo agire: qui - adesso - per noi.
Il sacramento è culto che sale a Dio e salvezza che scende da Dio.
Il sacramento è un luogo di incontro. È il punto in cui si incrociano i due grandi movimenti che legano Dio all’uomo: quello per cui Egli discende a noi e quello per cui noi saliamo a lui. Questi due movimenti possono essere definiti con due termini: salvezza e culto.
In un passato recente era diffusa una concezione imperfetta della liturgia, che si limitava al solo aspetto del culto. Si sottolineava ciò che fa la chiesa verso Dio e si lasciava in ombra ciò che Dio fa verso la chiesa. Ora il Concilio ci ha detto con chiarezza che l’atto sacramentale è lo spazio di grazia in cui le grandi gesta di Dio, che hanno operato la salvezza e che culminano nella Pasqua di Cristo, si rendono presenti, sono attualizzate per salvare gli uomini di oggi che vi prendono parte. Viene dunque prima il movimento discendente di Dio e questo a sua volta rende possibile quello ascendente dell’uomo. Questo risponde alla struttura della storia sacra che è essenzialmente dialogica. Dio viene incontro all’uomo con la sua parola e le sue azioni, e l’uomo in risposta va incontro a Dio.
È tipico della religione biblica sottolineare l’iniziativa di Dio.
È sempre lui che comincia. Non si accontenta di lasciarsi cercare dall’uomo: prende Lui l’iniziativa dell’incontro. Non è solo Qualcuno che ascolta: è prima ancora Qualcuno che parla. Ma se Dio mi cerca, devo lasciarmi trovare. La sua offerta di alleanza deve dialogare con la mia capacità di decisione e di fedeltà. L’azione discendente di Dio esige e provoca la cooperazione ascensionale dell’uomo. Perché in fondo anche la mia risposta è un dono. Il mio culto (che è fatto di fede, di amore, di lode, di ubbidienza e di disponibilità totale) è la risposta alla sua offerta di salvezza.
I due movimenti, salvezza e culto, non si incrociano soltanto, ma si compenetrano profondamente. L’accettazione del dono divino (che esige fede, amore e disponibilità) è già un atto di culto. E viceversa l’omaggio reso a Dio ricade su di noi come azione santificante di Dio.
I Padri della Chiesa hanno espresso questa divina verità con questa formula sintetica: Tutto ci viene dal Padre, per mezzo del Figlio, nello Spirito Santo; e tutto, per mezzo del Figlio, nello Spirito Santo, torna al Padre.
Il sacramento è un fulcro a cui si danno convegno tutte le dimensioni della storia sacra. È noto che una delle acquisizioni fondamentali del Concilio è quella di aver riscoperto la Rivelazione come storia: storia sacra perché ha Dio come protagonista. Il progetto di salvezza di Dio si presenta come una storia sempre in atto che ha un lungo passato costellato di meraviglie, che si prolunga nell’oggi che stiamo vivendo, e che si compirà solo alla fine dei tempi.
Il sacramento abbraccia tutte queste dimensioni. È la storia sacra in atto oggi, carica di tutto il passato e gravida di tutto l’avvenire. È infatti un gesto di quel Dio che era, che è e che viene (Ap 1,4). Rivela in ciò tutto il suo dinamismo: la sua costante tensione in avanti.
Questo risponde molto bene a un bisogno di storicità che è molto acuto nel mondo contemporaneo. L’uomo vuole essere presente nel mondo in modo attivo: assumere i valori per incidere sull’oggi e migliorare la situazione in vista di un futuro diverso di fronte al quale si sente responsabile. Si trova dunque magnificamente nella vicenda biblica che pare ricalcata su questa esigenza.
Il sacramento non mi proietta all’indietro: mi offre la salvezza oggi. Quando annuncio la morte e la risurrezione di Cristo, egli muore nella mia morte al male e risorge nel mio rinascere alla vita divina. Chi si apre mediante la fede al mistero e alle sue esigenze, ne sperimenta, al presente, l’efficacia salvifica.
La Pasqua è indubbiamente un evento storico: è l’atto posto una volta per tutte con cui Cristo ha amato la Chiesa fino all’estremo limite e per essa si è consegnato alla morte. Eppure il battesimo seppellisce realmente il cristiano nella Sua morte e lo innesta nella vita nuova del Risorto (Rm 6,3-4; Col 2,12).
L’Eucaristia offre il massimo di questa forza salvifica: è un mangiare il corpo di Cristo, è comunione al calice che attua la nuova alleanza nel suo sangue: piena comunione dunque tra Dio e gli uomini. Altrettanto si può affermare per l’imposizione delle mani, il perdono dei peccati, l’unzione degli infermi, ecc.
Questa presenza a sua volta si prolunga nell’attesa. Infatti il dono sacramentale non è ancora la salvezza definitiva: è solo caparra, anticipazione. È dunque automaticamente in tensione verso il suo compimento finale. Celebriamo la memoria eucaristica nell’attesa della sua venuta (cfr. 1Cor 11,26).
La venuta di Cristo nel sacramento accende la sete della sua venuta nella gloria. Marana-tha: vieni, Signore Gesù (1Cor 16,22), supplicava la primitiva comunità cristiana. Mentre si stringe, gioiosa, intorno al Risorto che si rende presente sotto il velo dei segni, la comunità anela di contemplare il suo volto e lo cerca con passione: Il tuo volto, Signore, io cerco (Sal 27,8).
Questa tensione è la grande speranza che solleva la Chiesa verso la venuta definitiva del Salvatore come Signore della gloria. Attende da Dio che è il Signore della storia un futuro nuovo in cui il presente si completerà in un modo inaudito. Un modo che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrò nel cuore dell’uomo (1Cor 2,9).
Questa non è utopia, perché si fonda sulla parola di Dio che non passa. Essa elimina la reazione di angoscia di fronte al futuro perché mi assicura che sarà sulla linea salvifica del presente: un futuro che sarà così meraviglioso da superare ogni attesa.
Il sacramento diventa così un gesto autentico di speranza cristiana.
Dall’insieme di queste riflessioni appare che il sacramento è veramente un momento privilegiato della storia della salvezza. Esso racchiude tutte le dimensioni del mistero. Porta nel presente tutte le meraviglie del passato e anticipa nel mistero tutta la gloria del futuro.
Un’antifona della solennità del Santissimo Corpo e Sangue di Cristo lo esprime magistralmente: Mistero della Cena! Ci nutriamo di Cristo, si fa memoria della sua passione, l’anima è ricolma di grazia, ci è donato il pegno della gloria futura.
I sette sacramenti sono modellati sul ritmo dell’esistenza umana e l’accompagnano lungo tutto il suo percorso. A livello umano l’uomo nasce, si nutre, cresce fino alla maturità personale e sociale, si sposa, assume funzioni di guida nella comunità, si ammala nello spirito, declina nel fisico. In tutti questi momenti gli è accanto Dio con un gesto di salvezza. La corrispondenza tra i sette sacramenti e i ritmi della crescita umana è facilmente comprensibile.
Va notato che l’Eucaristia non è solo il Pane che nutre: è il fulcro di tutto l’organismo sacramentale, perché la presenza di Cristo in essa raggiunge il massimo di pienezza e di efficacia salvifica. È il centro da cui Cristo irradia la sua virtù santificatrice in tutte le direzioni. Tutti gli altri sacramenti sono ordinati all’Eucaristia o come iniziazione (battesimo, cresima, confessione) o come prolungamento della sua grazia alle situazioni emergenti dell’esistenza (ordine sacro, matrimonio, unzione degli infermi). È la ragione per cui essi vengono celebrati (sempre per qualcuno, spesso per altri) in connessione diretta con l’Eucaristia in cui vanno a inserirsi.
Tra ritmi umani e ritmo sacramentale c’è dunque analogia e connessione.
Ne nasce una norma fondamentale: i sacramenti si vivono nel tessuto concreto dell’esistenza. Hanno un prima e un poi nella vita. Costituiscono un impegno che afferra il futuro. La liturgia si rivela come una fonte: la vita morale e ascetica sgorga di lì e ne riceve fortemente l’impronta. L’orazione posta al termine della messa sottolinea normalmente questa ripercussione che l’atto sacramentale deve avere nella vita.
Diceva s. Leone Magno: Bisogna compiere con le opere ciò che è stato celebrato nei sacramenti. Intesa così, la liturgia mette con le spalle al muro. Dà una carica dinamica a tutta l’esistenza e ne orienta gli atti. Scrive s. Paolo: Non potete bere il calice del Signore e il calice dei demoni (1Cor 10,14-22).
Questa incompatibilità sottolineata da Paolo ne richiama tante altre. La coerenza con il dono ricevuto impegna a uno stile nuovo di vita. Santificandomi il sacramento mi fa essere un uomo nuovo, ma di lì deve nascere un modo di agire nuovo, sostenuto dall’energia divina del sacramento.
Il sacramento domanda dunque di produrre i suoi frutti nell’esistenza concreta.
Ma con ciò non è detto tutto sul rapporto tra sacramenti e vita. Esso va nei due sensi: dalla vita ai sacramenti e dai sacramenti alla vita. Non un rito vuoto, senza alcun rapporto con la realtà concreta. Meno ancora un varco che ci immette in un mondo irreale e offre un alibi per il disimpegno dalle responsabilità quotidiane. Ma i riti sacramentali sono gesti in cui confluisce la vita concreta e quindi punti di arrivo. E sono sorgenti di grazia che offrono luce e forza per dare un senso nuovo al vivere di ogni giorno e quindi punti di partenza. Le due prospettive sono complementari: devo celebrare quello che vivo per giungere a vivere quello che celebro.
I gesti sacramentali vengono dalla vita. Cristo ha assunto alcune azioni comuni dell’uomo (come il banchetto, il lavacro o l’unzione) e, cariche di tutto il simbolismo che avevano preso nella storia sacra, ne ha fatto dei mezzi per un incontro con lui. Ha dato una qualifica divina a strutture umane. E questo sembra quasi un invito esplicito a percorrere la via che dall’esperienza umana va all’incontro sacramentale: dal dolore sperimentato drammaticamente ogni giorno alla Pasqua di Cristo celebrata nell’Eucaristia, che rovescia il dolore e ne fa una sorgente di gioia e di vita; dall’esperienza amara del peccato all’incontro con il Padre che mi stringe al cuore e mi rinnova con il suo perdono.
L’incontro sacramentale a sua volta rimanda alla vita: esige il prolungarsi nella realtà di ogni giorno, in cui Cristo è presente anche se in modo diverso: avvenimenti lieti e tristi, lavoro, contatto con il prossimo, ecc. La liturgia domanda che i fedeli esprimano nella vita quanto hanno ricevuto mediante la fede (SC 10). In particolare l’incontro sacramentale accompagna l’uomo nei momenti più significativi dell’esistenza che esigono scelte decisive. Nel momento di testimoniare coraggiosamente il vangelo, la grazia della cresima mi infonde forza. Quando i fratelli esigono da me un dono totale in spirito di servizio ed è necessaria una forte carica di sacrificio, l’Eucaristia mi comunica la grazia di Colui che è venuto a servire e a dare la vita e l’ha fatto fino alla morte in croce. Quando l’armonia familiare si incrina per la frizione dei temperamenti o il contrasto delle idee, la grazia del matrimonio risuscitata mediante la preghiera, comunica la fedeltà dell’amore di Cristo per la sua chiesa e porge una grazia per sormontare tutti gli ostacoli. Nei momenti critici il ministro sacro deve risuscitare la grazia che gli è stata data con l’imposizione delle mani (2Tm 1,6).
Il sacramento si prolunga nella vita grazie a tre atteggiamenti fondamentali:
a) Partecipazione alla missione ecclesiale di cui ogni battezzato è investito. Dal sacramento si esce inviati agli uomini. È come se ci venisse detto: Andate e comunicate agli altri il dono ricevuto, gridate sui tetti la bella notizia che Dio ci ama e ci salva, ci dona il suo Cristo, e questo Cristo è presente risorto tra gli uomini e per gli uomini.
Celebrare l’eucaristia e annunciare Cristo agli uomini fa parte dell’unica missione di rendere Cristo presente agli uomini perché essi entrino in comunione di salvezza con Lui (Durwell, Il mistero pasquale sorgente di apostolato, pag. 170).
b) Testimonianza di fronte ai fratelli. Chi ha fatto l’esperienza viva del Cristo - che - si - dona - a me, va verso gli altri con un’esistenza segnata da quel dono. È spinto a ricalcare le orme di Cristo, ne assume lo stile di servizio, riversa sugli altri l’amore che l’ha inondato e reso felice. Diventa segno dell’amore di Cristo che si dona.
Come membro del corpo di Cristo sente il bisogno di mettersi a servizio della riconciliazione tra gli uomini. Come risorto con Cristo si presenta al mondo con un’aria di gente salvata.
A leggere il NT sembra che la testimonianza sia riservata a quelli che hanno visto il Signore Gesù nella sua vita terrena. In realtà essa è opera dello Spirito Santo ed è legata all’esperienza di fede: Abbiamo creduto, perciò parliamo (2Cor 4,13). È un linguaggio a base di fatti, che grida il vangelo con la vita e lo annuncia mediante la santità.
c) Impegno per una liberazione totale: quella che ci ha recato con la sua Pasqua.
Ogni sacramento rappresenta un momento forte di questa liberazione: è un gesto liberatore di Cristo. Mi libera perché io diventi a mia volta liberatore, operando perché ogni uomo abbia accesso alla libertà dei figli di Dio, impegnando le mie forze perché il nostro sia un mondo nuovo nel quale abita la giustizia (2Pt 3,13).
Conclusione
Siamo alla fine di questa rapida corsa panoramica. Essa nella sua brevità non ci ha permesso di approfondire alcun aspetto, ma avrà almeno mostrato la vastità del panorama teologico e pastorale che ci offre il binomio vangelo-sacramenti.
Essi sono una coppia di realtà inseparabili e sono ordinate l’una all’altra.
C’è un movimento dialettico, logico, convincente che va dall’annuncio ai sacramenti, e dai sacramenti all’annuncio. Vissuti coerentemente conducono alla vita in Cristo che è la santità. Usati con intelligente impegno dalla pastorale, conducono gli altri alla salvezza. Sono i grandi mezzi di cui dispone la chiesa per dare un volto nuovo alla storia umana.